Ormai Kate era certa di una cosa: in ben poche occasioni la felicità era pura. Aveva imparato che la maggior parte delle volte si creava sulla sofferenza altrui, la felicità di qualcuno a discapito della delusione di qualcun altro, uno scambio poco equo, ma un compromesso dal quale era impossibile prescindere. Questo la gettava in un ondata di malinconia che la sbatacchiava qua e là, in cerca di una risposta su quale fosse la cosa giusta da farsi, su quale fosse la decisione migliore da prendere. Ma migliore per chi? Per lei o per qualcun altro? E anche nel caso avesse scelto se stessa, nemmeno allora si sarebbe sentita sollevata, pensando che da qualche parte c’era qualcuno che avrebbe continuato a pensarla, ad amarla, invano. E poi Kate aveva capito anche un’altra cosa: che la colpa più grande, a volte, era semplicemente essere sé stessi. Non interpretare nessun ruolo se non il proprio era come stare in una cella, non si poteva assolutamente fuggire da chi si è veramente , mentre invece una maschera, una volta indossata, la si poteva anche togliere in men che non si dica in qualsiasi momento. Uno scudo, contro la realtà, contro tutto e tutti.